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Sergey Tarasov: "Ad Albertville 1992 sono quasi morto, fecero un esperimento su di me"

Sergey Tarasov: 'Ad Albertville 1992 sono quasi morto, fecero un esperimento su di me'
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Getty Images

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Sergey Tarasov: "Ad Albertville 1992 sono quasi morto, fecero un esperimento su di me"

Nei giorni scorsi abbiamo trovato, per pura casualità, un’intervista a Sergey Tarasov datata febbraio 2015 e mai pubblicata sui media occidentali. L’ex biathleta russo ha vuotato il sacco alla testata Sport-express, raccontando la verità in merito alla sua drammatica esperienza durante i Giochi olimpici di Albertville 1992, quando rischiò di morire a causa di una trasfusione sanguigna errata.

Prima di esaminare la vicenda è doveroso fare un breve excursus sulla carriera di Tarasov, poiché molti appassionati si sono avvicinati al biathlon solo di recente e di sicuro non conoscono il suo profilo.

Classe 1965, è stato un biathleta di vertice negli anni ’90, vivendo il suo momento  migliore fra il 1993 e il 1997. Durante questo periodo, a livello individuale, ha vinto un oro olimpico e un oro iridato (entrambi nella 20 km, rispettivamente a Lillehammer 1994 e a Ruhpolding  1996) a cui si aggiungono altre quattro medaglie personali di metalli meno pregati e cinque medaglie con le staffette, compreso l’oro mondiale del 1996.

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Tuttavia, prima di ottenere tutti questi successi, è diventato famoso – almeno dietro le quinte dell’ambiente – per una delle vicende più inquietanti e oscure nella storia del biathlon.

Dopo quasi un quarto di secolo l’ex biathleta ha deciso di fare definitivamente luce su di esso, confermando proprio in quest’intervista, raccolta in occasione del suo cinquantesimo compleanno e tradotta per noi dall’amica Valeria Maslova, come le peggiori illazioni sulla sua disavventura fossero tutte fondate.

 

La storia di quando alle Olimpiadi del 1992 sei quasi morto è tutt’ora avvolta nel mistero.
“È successo tra il 6 e il 7 febbraio. Dopo quanto accaduto lo considero il mio secondo compleanno, hanno fatto un esperimento su di me”. 

Con il doping ematico?
“Sì”.

Come funzionò?
“Il sangue venne prelevato durante l’estate, al picco della forma fisica. Venne arricchito con vitamine, messo nel congelatore e conservato fino alle gare invernali. Dopodiché, al momento opportuno, venne riportato a temperatura ambiente e re-iniettato nel corpo. Che io sappia fino a quel momento nel biathlon nessuno aveva mai usato questa pratica, ma nel 1991-‘92 decidemmo di provare. Il sangue venne prelevato a quattro persone durante un training camp a Minsk, ma quando si trattò di portarlo ad Albertville ci vollero dei giorni e non venne trasportato in una valigetta frigorifero, bensì in una valigia normale”.

Ma così sarà sicuramente andato a male…
“Certo che andò a male! Dopo l’incidente dissi a dei medici di questo fatto e loro avevano gli occhi fuori dalle orbite, dicevano che non era possibile fosse stato trasportato in quel modo”.

Le dicerie su di te affermano che in realtà ti è stato iniettato sangue di un altro gruppo sanguigno, non compatibile con il tuo.
“Anche questo non si può escludere. Non c’erano etichette sulle sacche. Io lo notai e chiesi rassicurazioni al medico della squadra. Lui rispose che non ce n’era bisogno, si ricordava di chi fossero le sacche”.

Il medico era Aleksey Kuznetsov?
“Esattamente. Lui doveva capire subito che quel sangue era inutilizzabile! Doveva avvisare gli allenatori del fatto che non si potesse iniettare per nessuna ragione. Loro non erano medici e non avevano conoscenza in materia”. 

Come sono andate le cose?
“Io fui il primo a sottopormi al trattamento. Pranzammo, poi mi dissero di entrare in una stanza. Mi accorsi che il medico tremava come una foglia. Addirittura gli dissi ‘Calma! Perché sei così agitato?’. Forse aveva già qualche sospetto”.

Poi cosa è accaduto?
“La trasfusione durava più o meno da 10 minuti senza nessun problema e il mio ritmo cardiaco era normale per i miei standard, 35 battiti al minuto. Però all’improvviso saltò a 200. Sentivo come se il cuore stesse per esplodere. Interruppero subito la trasfusione, ma ormai il danno era fatto”.

Hai perso conoscenza?
“A momenti. Svenivo e rinvenivo. Ero annebbiato, vedevo il medico che cercava di farmi un’iniezione e non ci riusciva. Abbiamo cominciato la trasfusione all’ora di pranzo, ma quando si sono decisi a chiamare aiuto era già buio. Il mio ultimo ricordo è la faccia del fondista Vladimir Smirnov mentre mi stavano caricando sull’ambulanza”.

Stavi morendo?
“Sì, e sono sicuro di aver salvato la vita a qualcuno” .

In che senso?
“Qualcun altro al mio posto sarebbe morto, teoricamente non avrei dovuto sopravvivere neppure io. Quando ho iniziato a riprendermi ero un caso clinico, tutti i medici francesi dell’ospedale sono venuti a farmi visita. Per quattro giorni e quattro notti il monitor mostrava 160 battiti al minuto. Quale cuore reggerebbe? Sono stato fortunato, il mio era estremamente allenato. Raccontando ricordo tutta la mia paura. Il sangue era infetto, bisognava svuotarmi completamente. Mi hanno iniettato un farmaco per permettere al midollo osseo di ricominciare a produrre globuli rossi. Nel frattempo ho perso i capelli e le unghie. Le braccia e le gambe si spellavano. Ho anche avuto un’esperienza di pre-morte”.  

C’era un tunnel?
“No. C’era una luce, molto forte. Penso davvero di essere stato in bilico con l’al di là. All’improvviso ho sentito la voce di mia figlia. ‘Papà! Papà!’. Dopo queste parole non potevo morire, mi hanno riportato in vita. Per me Katia è la persona più importante al mondo”.

Dove si trovava sua figlia in quel momento?
“A Novosibirsk, con sua madre. Quando ho ripreso conoscenza mi hanno chiesto se volevo che mia moglie venisse ad Albertville. Risposi di no, non volevo spaventarla. Avevo perso più di 10 chili, il vento mi faceva oscillare. Nel vero senso della parola. Al quinto giorno, quando ho iniziato a stare un po’ meglio, mi hanno portato fuori a prendere una boccata d’aria. Mi dovevano sostenere a braccia e quando ho inspirato, l’infermiera mi ha retto a malapena”.

Il medico Kuznetsov veniva a visitarla?
“Certamente. Anche gli allenatori e gli atleti. Ricordo una visita di Anatoly Zhdanovic ed Evgeny Redkin. Anatoly cercava di tirarmi su il morale, scherzava, faceva battute. Redkin invece era giovanissimo e dopo avermi salutato non ha più aperto bocca. Tempo dopo mi ha raccontato ‘Eri in un tale stato che quando ti ho visto sono rimasto paralizzato dall’orrore e ho perso la parola’”.

Kuznetsov si è scusato?
Non ci sono state scuse, ma inizialmente non ho neanche sentito rancore. Solo dopo ho realizzato come stavano le cose. Ora l’ho perdonato, abbiamo un rapporto normale. Nessuno mi voleva uccidere. È colpa mia, perché ho acconsentito all’esperimento”.

È vero che qualcun’altro della squadra è stato coinvolto in questa tragedia di Albertville, ma con conseguenze meno gravi?
“No, ad Albertville si sono fermati su di me. In Russia in TV dissero che ero morto. Grazie a Dio mia moglie e mia mamma non l’hanno sentito. Dopo mezz’ora è arrivata la smentita: ‘Scusate, è ancora vivo.”

Per quanto tempo sei rimasto in ospedale?
“Fino al 23 febbraio, ultimo giorno delle Olimpiadi. Inaspettatamente per tutti non ero morto, ma non mi hanno permesso neanche di finire le cure, né di incassare l’assicurazione. Mi hanno preparato in tutta fretta per farmi partire con il resto della delegazione. Avevano paura che dicessi cosa era successo”.

Qual è stata la versione ufficiale?
“Avvelenamento dai funghi portati da casa! Mi reggevo in piedi a malapena, i medici francesi dicevano che sarei dovuto restare in ospedale come minimo per sei settimane. Invece i nostri capi mi hanno trascinato via”. 

Cos’è successo al tuo ritorno?
“All’aeroporto è venuta mia moglie a prendermi. Quando mi ha visto si è messa a piangere. Ero irriconoscibile. Poi, per un mese, abbiamo dovuto chiamare continuamente l’ambulanza anche più volte al giorno. Avevo repentini sbalzi di pressione . Ormai all’ospedale ci scherzavano su: “Cosa la mandiamo a fare avanti e indietro l’ambulanza? Lasciamola fissa sotto le finestre di Tarasov”. Dopo qualche tempo si è presentato un nuovo problema, l’aritmia. Una cosa tremenda. Cominciai ad avere paura di addormentarmi. Pensavo ‘E se il cuore si ferma improvvisamente durante il sonno?’”

Nessuno l’ha aiutata, soprattutto nel mondo sportivo?
“Sono spariti tutti all’istante. A nessuno interessava quello che mi stava succedendo. Poche settimane dopo, proprio a Novosibirsk, c’era una tappa di Coppa del mondo. Nessuno si è ricordato di me, nessuno è venuto a trovarmi. Nello sport è una storia comune. C’è bisogno di te finché produci i risultati. Altrimenti, ti cancellano. Nel periodo più difficile mi sono stati vicini solo la mia famiglia e il mio allenatore personale, Aleksandr Nikiforov. E una volta mi ha chiamato Aleksander Tikhonov. Ha proposto di sporgere denuncia”.

Lei ha rifiutato?
“Sì, dissi che sarebbe stata la fine della mia carriera perché mi sarei chiuso per sempre le porte della nazionale. Tikhonov si arrabbiò: ‘Ma quale nazionale?!’ – mi disse – ‘Non hai più nessuna possibilità lo stesso! Così almeno prenderai una vagonata di rubli. Ti garantisco che vinceremo la causa’. Lui voleva sfruttare la situazione a proprio favore, ma agendo con le mie mani. Lui in quel momento  era in disgrazia nel biathlon russo. Se l’è legata al dito, non gli piace quando qualcuno non è d’accordo con lui o non lo asseconda. Alle Olimpiadi di Lillehammer non si è neanche congratulato con me per la vittoria”.

Infatti è incredibile quanto è successo dopo. Non solo ti sei ripreso, ma hai anche vinto l’oro olimpico!
“I nostri medici mi ripetevano che avevo bisogno di riposo assoluto, ma così facendo mi sentivo sempre peggio. Allora ho deciso di mettermi in contatto con i dottori francesi. Al contrario, loro mi hanno consigliato di muovermi di più perché il mio cuore si era abituato agli sforzi. Ho ricominciato piano piano ad allenarmi e miglioravo a vista d’occhio. L’unica cosa è che l’aritmia non mi è mai passata”.

Volevi subito tornare all’attività agonistica?
“Sì, a settembre chiesi di tornare in squadra nazionale, dove nel frattempo era cambiato lo staff tecnico. Erano arrivati Anatoly Khovantsev e Valeriy Polhovskiy. All’inizio mi risposero: ‘A cosa ci serve un morto?’. Alla fine però mi dissero che se a dicembre fossi arrivato nei primi tre dell’“Izhevsk Rifle” sarei potuto rientrare. Sembrava una condizione impossibile, anche perché a novembre feci una gara in Coppa di Russia a Novosibirsk. Arrivai al traguardo praticamente strisciando, ero diventato tutto verde. Vadim Melikhov, guardandomi, disse: ‘Tarasov non sarà mai più quello di una volta’”.

Crudele.
“Sì, ma io ho saputo delle sue parole solo più di un anno dopo, quando a Lillehammer divenni campione olimpico. Venne Melikhov in persona a dirmele e aggiunse ‘Perdonami Sergey, non credevo potessi tornare’. Ma parliamoci chiaro, non ci credeva nessuno”.

Non hai mai più provato il doping?
“Mi è bastato un solo tentativo! Tutte le mie medaglie sono pulite. A volte penso che forse le cose sono andate nel migliore dei modi. Se ad Albertville non avessi avuto questa lezione così dura, avrei fatto uso di doping nel resto della mia carriera”.


Traduzione di Valeria Maslova.

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