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Valery Medvedtsev: "Le biathlete russe hanno un handicap spaventoso"

Valery Medvedtsev: 'Le biathlete russe hanno un handicap spaventoso'
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Valery Medvedtsev: "Le biathlete russe hanno un handicap spaventoso"

Il nuovo capo allenatore di uno dei due gruppi squadra femminile russa di biathlon Valery Medvedtsev ha rilasciato un'interessante intervista alla testata Sport-Express. Ha parlato diffusamente della situazione delle atlete da lui seguite, del perché di un biennio molto difficile e dei piani per rilanciare il movimento.

Come può definire l'attuale stato del team?
"La situazione non è certo facile. La sprint è il format-base del biathlon ed è diventato anche quello più difficile, quindi i risultati ottenuti in questa tipologia di competizione sono i più indicativi per stabilire la forza delle atlete.Per quanto ci riguarda, abbiamo un handicap spaventoso. L'anno scorso le nostre donne più quotate hanno patito, in media, un distacco sugli sci di un minuto e quindici secondi dalle migliori. Si tratta di un ritardo mai verificatosi nella storia del biathlon russo e sovietico.In termini di risultati, questo significa che anche sparando perfettamente le nostre ragazze non possono vincere con le loro forze e devono sperare che le avversarie più forti accumulino due o tre penalità, come è successo lo scorso anno ad Anterselva. Altre chance di salire sul podio non ce ne sono.Non credo sia una questione di incapacità delle nostre ragazze. Semplicemente, nella mia opinione, il lavoro degli ultimi due o tre anni non è andato nella direzione giusta. Questa è la ragione del crollo di prestazioni. Ridurre in tempi brevi il distacco di cui ho parlato non sarà semplice, ma sono sicuro che le atlete in qualche modo ci riusciranno”.

Sembrerebbe che i problemi della squadra femminile siano cominciati quando il team è finito nelle mani di Wolfgang Pichler. Se è così, cosa pensa abbia fatto di sbagliato?
“Non posso rispondere a questa domanda, perché ai tempi stavo lavorando a livello regionale e non mi interessavo di quanto accadeva nella squadra nazionale. Comunque, io non voglio criticare nessuno in particolare. Semplicemente sono arrivato nella squadra nazionale e analizzando i dati degli ultimi due anni mi sono reso conto di come l’intero processo di allenamento fosse condotto nella zona aerobica. Non si è lavorato sulla velocità e sulla resistenza veloce. Ho l’impressione che la maggior parte dei nostri allenatori sia convinta che in estate si debbano massimizzare i carichi, e si debba iniziare a lavorare sul veloce solo in autunno con la speranza che le atlete più forti abbiano un picco proprio in vista del grande appuntamento stagionale. Al contrario molti tecnici stranieri sono dell’opinione opposta, ovvero di lavorare sulla velocità sin dall’inizio della preparazione. Quando io ero un atleta, e stiamo parlando dei tempi dell’Unione Sovietica, lavoravamo sul veloce tutto l’anno. Facevamo test in merito già a maggio-giugno. Poi abbiamo cambiato sistema. Questo è successo perché, a mio parere, si è iniziato a guardare troppo al cardiofrequenzimetro. Sono sempre stato un oppositore di questo metodo di lavoro, perché penso che un’atleta possa capire da solo quanto può andare veloce e qual è il suo limite. Per dirla in parole povere, non ha senso allenarsi tenendo come soglia le 140 pulsazioni al minuto. Non ha proprio senso, perché durante le gare si deve andare oltre. Se si tiene questa soglia è semplicemente impossibile vincere una sprint”.

Lei ha detto che la sprint è la gara più difficile in assoluto. Perché?
“Perché richiede uno sforzo maggiore. Se prendiamo come paragone l’individuale, nella sprint bisogna tenere ritmi più alti e saper distribuire lo sforzo in maniera diversa per poter essere sempre brillanti. Per farlo è necessario un certo tipo di allenamento.Ora molti stanno criticando i metodi di lavoro sovietici. In realtà quei metodi sono stati semplicemente dimenticati. So che il modo in cui ci allenavamo una volta è lo stesso che usano gli americani. Anche i tedeschi lavorano molto sul veloce, ne ho parlato con Ricco Gross”.

Cosa pensa dell’infinita discussione sulla necessità di creare basi di resistenza?
“Le basi vanno gettate nell’adolescenza, ma senza carichi eccessivi e senza esercizi atti a sviluppare rapidamente le qualità velocistiche degli atleti. Gli allenamenti  pesanti non devono cominciare prima dei 18 anni. Ormai vedo sempre più ragazzini sottoposti ad allenamenti durissimi sin dalla tenera età. Talmente impegnativi da far perdere l’amore e l’interesse per lo sport. Quando seguivo mia moglie Olga (Pyleva-Medvedtseva, campionessa olimpica nell’inseguimento di Salt Lake City 2002 ndr) ho sempre guardato con molta attenzione ai metodi di allenamento francesi e a quelli norvegesi. Olga, infatti, si è allenata spesso assieme ai coniugi Poirée”.

Negli ultimi anni tutti i suoi predecessori sostenevano che il lavoro stava andando bene, che la velocità delle atlete migliorava e il recupero dagli sforzi era molto buono. Eppure i risultati sono stati pessimi. Pensa ci sia un problema nella raccolta dei dati? Hanno davvero valore e sono ancora credibili?
“Non so come venissero letti quei dati, ma è chiaro che senza un termine di paragone si può dare la lettura che si preferisce.  A me interessa una sola cosa: i valori di quest’anno devono essere migliori di quelli dell’anno passato. In altre parole voglio vedere le ragazze andare forte e recuperare bene dagli sforzi. Questo è un punto fondamentale: la maggior parte delle gare di Coppa del Mondo viene disputata senza giorni di riposo prima. Bisogna essere preparati  sostenere gli impegni di un calendario molto fitto, altrimenti la stagione è andata prima ancora di cominciare”.

Si ispira a qualche modello in particolare?
“Conosco bene i metodi di allenamento dei tedeschi, ho sempre parlato molto con loro e mi hanno spiegato molte cose, anche quando ero un atleta. Oggi la Germania femminile è probabilmente il movimento più interessante, nonostante abbiano fallito a Sochi”.

La Germania è famosa per lanciare in tenera età gli junior di talento.
“Ed è giusto. Ai tempi dell’Unione Sovietica c’era una regola: un campione del mondo junior doveva obbligatoriamente essere inserito nella squadra nazionale l’anno successivo e gareggiare in Coppa del Mondo. Questo perché i ragazzi che sanno come si vince, devono gareggiare. Nello sport i vincenti nati sono pochi. Il “vincente” è colui a cui non interessa arrivare quarto, quinto o sesto, ma mira sempre al primo posto. Bisogna trovare e saper valorizzare questo genere di atleti”.

Prima di lavorare con le biathlete lei ha lavorato molto nel settore maschile. Qual è la differenza?
“La maggior parte dei maschi mette in dubbio tutto ciò che dice l’allenatore. Al contrario le donne sono decisamente più propense a prenderlo in parola. Questo non è necessariamente un bene e Io dico sempre alle mie atlete. La discussione e il confronto sono necessari, perché se c’è un dubbio bisogna levarselo e bisogna saper difendere le proprie opinioni se si pensa di essere nel giusto. Lo dico per esperienza personale. Da atleta ero sovente insoddisfatto delle tabelle di allenamento e sono stato fortunato nell’aver trovato allenatori che mi abbiano saputo ascoltare. In realtà, molti anni dopo, ho scoperto di essere considerato una sorta di sovversivo. Vladimir Barnashov mi ha detto che lo staff tecnico era sconvolto dal mio comportamento. Un ragazzino appena arrivato in squadra nazionale che si permetteva di contestare l’operato degli allenatori! Mi ha anche confessato che lo staff aveva pensato di escludermi, ma alla fine non lo fecero. Mi assecondarono e l’inverno successivo vinsi due ori iridati ai Mondiali di Oslo”

Si è posto degli obiettivi per la nuova stagione?
“Sì, ne ho fissati tre. Il primo è quello di recuperare 20 secondi alle più forti nei tempi sugli sci delle sprint. Il secondo è tornare ad avere un contingente di 6 atlete per la stagione 2017-’18 e il terzo è vincere una medaglia ai Mondiali”.

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